Lavoratore malato oncologico: copertura del ‘comporto’ solo per giorni di ricovero in ospedale e per giorni di terapia

Da escludere, invece, dalla copertura del ‘periodo di comporto’ gli archi temporali relativi ai periodi di mera convalescenza

Lavoratore malato oncologico: copertura del ‘comporto’ solo per giorni di ricovero in ospedale e per giorni di terapia

Dipendente malato oncologico: il cosiddetto ‘comporto’ include solo i giorni di ricovero ospedaliero e quelli di terapia. Questo il punto fermo fissato dai giudici (ordinanza numero 8136 del 27 marzo 2025 della Cassazione), i quali hanno, a chiusura della delicata vicenda presa in esame, sancito in via definitiva che una dipendente di un’autorità di bacino dovrà restituire le retribuzioni da lei percepite in un lungo periodo di assenza dovuta ad una patologia oncologica, ossia, meglio, dovuta alla sottoposizione, per quasi due anni, a terapie ‘salvavita’. Ciò perché sono da includere nel cosiddetto ‘periodo di comporto’ solo i giorni di ricovero ospedaliero e le giornate di assenza dovute alla necessità di sottoporsi alle terapie, mentre sono da escludere i periodi di mera convalescenza.
A dare il ‘la’ alla vicenda giudiziaria è la pretesa, avanzata da un’autorità di bacino nei confronti di una dipendente assente a lungo a seguito di una malattia oncologica, per il recupero di retribuzioni relative a giornate non lavorate – periodo compreso tra gennaio 2011 e ottobre 2012 – in cui la lavoratrice è stata pagata dal proprio datore di lavoro, sul presupposto che le assenze di quel periodo fossero da ricondurre alla sottoposizione a terapie oncologiche ‘salvavita’, assenze che solo successivamente sono state ritenute non rientrare nel ‘periodo di comporto’ e per le quali si è quindi proceduto alla ripetizione dell’indebito.
In Appello viene ritenuta legittima la posizione dell’autorità di bacino, poiché sono da ritenere interni al comporto — secondo quanto ricavato da un parere ‘ARAN’ – solo i giorni di ricovero ospedaliero e quelli dovuti alla necessità di sottoporsi alle terapie, con esclusione dei periodi di convalescenza, e comunque con assenze che devono essere debitamente certificate come avvenute a tale titolo della competente Azienda sanitaria locale o da altra struttura convenzionata.
Col ricorso in Cassazione, però, il legale che rappresenta la lavoratrice sostiene sia erronea la visione adottata in Appello e osserva, nello specifico, che i certificati medici sono stati sempre trasmessi e solo dopo tre anni l’autorità di bacino ha preteso ulteriori riscontri, procedendo, in mancanza di tali riscontri, ai recuperi delle retribuzioni percepite dalla dipendente.
Sempre secondo il legale, poi, le assenze da computare non sono solo quelle dei giorni in cui viene assunta la terapia ‘salvavita’, ma anche quelle immediatamente riferibili alle conseguenze, o agli esiti, della terapia stessa.
Per valutare tali obiezioni, però, i magistrati di terzo grado richiamano, innanzitutto, quanto previsto dal contratto collettivo per il comparto ‘enti locali’: nello specifico, in caso di patologie gravi che richiedano terapie ‘salvavita’ ed altre assimilabili, come ad esempio l’emodialisi e la chemioterapia, sono esclusi dal computo dei giorni di assenza per malattia i relativi giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital ed i giorni di assenza dovuti alle citate terapie, debitamente certificati dalla competente Azienda sanitaria locale o da struttura convenzionata. In tali giornate, quindi, il dipendente ha diritto in ogni caso all’intera retribuzione. Allo stesso modo, il contratto collettivo per il comparto ‘Sanità’, nel prevedere l’esclusione, dal computo dei giorni di assenza per malattia, dei giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital necessari per la somministrazione di terapie ‘salvavita’ per gravi patologie, richiede una specifica certificazione da parte della competente Azienda sanitaria locale o da struttura convenzionata, il cui rilascio può avvenire solo successivamente al verificarsi dell’assenza dovuta all’erogazione della terapia, sicché, ove detta terapia sia stata prescritta in regime di autosomministrazione, va esclusa la possibilità del riconoscimento del beneficio in mancanza della certificazione delle assenze da parte delle competenti strutture sanitarie, da ritenersi concretamente ottenibile qualora le modalità di erogazione quotidiana delle cure non consentano la presenza in servizio.
Per i giudici di Cassazione la chiave di lettura è semplice: la previsione normativa ha semplicemente il senso di operare un rigoroso riscontro sulle necessità di assenza per le ragioni in essa indicate, che però non escludono né il diritto a quelle assenze, se motivate e documentate secondo quanto previsto, né ovviamente le cure ed i tempi necessari al conseguente recupero psico-fisico.
Tornando alla vicenda oggetto del processo, è pacifico che, per l’intero periodo oggetto di causa, non vi siano state le speciali certificazioni previste dalla disposizione – mentre non possono avere alcun rilievo le disposizioni della successiva contrattazione collettiva e che rimettono le attestazioni al medico curante e prevedono incombenti diversi – e ciò sul piano oggettivo radica l’indebito, rispetto all’essere stata in quel frangente pagata la retribuzione.
Applicabile, in sostanza, il principio secondo cui nel pubblico impiego privatizzato non è configurabile un diritto quesito del dipendente a continuare a percepire – o a trattenere, se già corrisposto – un trattamento economico che non trova titolo nel contratto collettivo, nemmeno se di miglior favore, in quanto gli aspetti retributivi sono rimessi alla contrattazione collettiva, sicché, a differenza di quanto accade nel lavoro privato, resta del tutto irrilevante ad escludere l’indebito che la corresponsione da parte del datore pubblico sia avvenuta consapevolmente e volontariamente. Di conseguenza, il mero affidamento del dipendente non comporta il consolidarsi del diritto» alla retribuzione.

News più recenti

Mostra di più...