L’azienda può cacciare il dipendente coinvolto in un procedimento penale

Logico, secondo i magistrati, parlare di giusta causa di licenziamento in relazione ad un comportamento extralavorativo, e non perché vi è stata una sentenza di condanna in sede penale, passata in giudicato, bensì perché i fatti contestati (e ritenuti dimostrati ai fini disciplinari) rivestono un forte allarme sociale

L’azienda può cacciare il dipendente coinvolto in un procedimento penale

Legittimo il licenziamento del lavoratore coinvolto in un procedimento penale relativo all’accertamento dell’esistenza di una associazione per delinquere finalizzata ad un grosso spaccio di droga.
Chiusa così dai giudici (ordinanza numero 10612 del 23 aprile 2025 della Cassazione) una lunga e annosa vicenda relativa alle sorti di un lavoratore coinvolto nelle indagini realizzate dai carabinieri per l’accertamento dell’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti.
Agli onori, per modo di dire, delle cronache sale, quasi dieci anni fa, un operaio, chiamato in causa, assieme ad altre persone, dalle indagini realizzate dall’Arma dei Carabinieri per scoprire l’esistenza di un gruppo criminoso finalizzato alla realizzazione di un corposo spaccio di sostanze stupefacenti.
A fronte dei rilievi compiuti dai militari, il quadro indiziario pare solido, e, così, anche l’operaio, come gli altri soggetti coinvolti, viene sottoposto a misura coercitiva della libertà personale, ossia obbligo di dimora e obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Inevitabile il clamore mediatico, che richiama l’attenzione dell’azienda per cui lavora l’operaio e che spinge i vertici ad adottare il provvedimento più drastico, ossia il licenziamento.
Sulla valutazione delle condotte attribuite al lavoratore si concentrano, si confrontano e si scontrano le valutazioni dei giudici. Nello specifico, sia in primo che in secondo grado viene esclusa la legittimità del licenziamento, ma di diverso parere è nel 2019 la Cassazione, che chiede un nuovo pronunciamento in Appello, pronunciamento che arriva nel 2020 e, ribaltando l’ottica adottata in precedenza, dà ragione all’azienda. Sacrosanto, in sostanza, il licenziamento, a fronte dei dettagli della condotta delittuosa addebitata all’operaio e definibile per relationem attraverso il richiamo, contenuto nella lettera di contestazione, alla ordinanza di applicazione della misura coercitiva: nello specifico, l’attività di spaccio contestata è stata svolta in via abituale e professionale; gli elementi di responsabilità basati sulle indagini e sul motivato esame da parte del Gip non hanno trovato in giudizio alcuna contestazione e consentono di ritenere provata la condotta ascritta all’operaio; il comportamento dell’operaio, oltre ad avere rilievo penale, è contrario alle norme dell’etica e del vivere civile comune, con un riflesso, anche solo potenziale, ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro; il fatto è grave per la intensità del dolo desumibile dalla molteplicità egli episodi di spaccio e dall’inserimento del lavoratore all’interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati.
Inutili le obiezioni sollevate nel nuovo processo in Cassazione dalla difesa dell’operaio, che vede ora reso definitivo il proprio licenziamento.
Per spazzare via ogni dubbio, i magistrati ribadiscono che l’accertamento definitivo della colpevolezza in sede penale non può applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di non proseguibilità, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, e ciò senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna. Di conseguenza, in presenza di comportamenti del lavoratore che possano integrare gli estremi del reato, qualora i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di non proseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, il datore di lavoro può esercitare la facoltà di recesso senza che sia necessario attendere la sentenza definitiva di condanna. Dunque, lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali.
Ciò detto, tornando alla vicenda che ha portato al licenziamento dell’operaio, è logico, anche secondo i magistrati di Cassazione, parlare di giusta causa di licenziamento in relazione ad un comportamento extralavorativo, e, viene precisato, non perché vi è stata una sentenza di condanna in sede penale, passata in giudicato, bensì perché i fatti contestati (e ritenuti dimostrati ai fini disciplinari) rivestono un forte allarme sociale, sia per la oggettiva gravità della condotta, che per la intensità del dolo, desumibile dalla molteplicità degli episodi di spaccio e dall’inserimento dell’operaio all’interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati. Tirando le somme, tali fatti rilevano sul rapporto di lavoro poiché integrano un comportamento odioso, che mina le basi della convivenza civile, e poiché sono significativi di un organico collegamento del lavoratore con ambienti malavitosi, a prescindere dalle mansioni svolte nel gruppo criminoso. Legittima, in questa ottica, l’acquisizione degli atti dell’indagine penale per poter valutare il comportamento dell’operaio ai fini della sua gravità e della sua incidenza sul rapporto di fiducia col datore di lavoro.

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